Le patologie neurodegenerative del sistema nervoso centrale hanno sintomi molto variabili e chi ne soffre si comporta in modo diverso a seconda delle aree del cervello colpite. I deficit di memoria, di cui si sente spesso parlare rispetto alla malattia di Alzheimer, sono causati da lesioni ben diverse rispetto ai deficit del controllo emozionale.
Andiamo con ordine, cercando di analizzare il comportamento aggressivo sul piano funzionale, cioè dal punto di vista della funzione che svolge nell’interazione con l’ambiente che circonda l’individuo.
L’aggressività, etologicamente parlando, è funzionale alla soddisfazione degli obiettivi primari dell’animale: un comportamento orientato alla difesa del territorio, accedere all’accoppiamento, proteggere i propri piccoli, organizzare la gerarchia sociale all’interno di un gruppo.
Tale comportamento può essere attivato dalle esperienze passate e dagli stimoli ambientali (inneschi), selezionati durante l’evoluzione o appresi nel corso della vita.
Gli psicologi definiscono l’aggressività come la “serie di comportamenti volti ad arrecare un danno, fisico o psicologico, ad altrui individui, indipendentemente dal raggiungimento o meno dell’obiettivo”. Questa definizione, sottolinea due aspetti importanti: l’intenzionalità di arrecare un danno deliberato agli altri e l’aspettativa che tale atto provochi delle conseguenze negative in chi lo subisce. (Giuliano, S. 2012). L’aggressività emozionale, contrapposta a quella strumentale finalizzata all’ottenimento di un tornaconto personale, fa riferimento alla volontà di arrecare un danno a qualcuno senza che venga eseguita una valutazione del rapporto costi-benefici nel mettere in atto il comportamento violento. In questi casi gli individui, spinti da una rabbia furibonda, agiscono senza neppure considerare la possibilità di una punizione immediata (Baron, 1983).
Possiamo distinguere funzionalmente il cervello in aree che si occupano di due modalità distinte di comportamenti (Le Doux, 1986): il comportamento emotivo, che comprende le reazioni di lotta e fuga, ricerca di cibo, sessualità e relazioni sociali e il comportamento cognitivo, che comprende pensiero, linguaggio, ragionamento e immaginazione.
Il “cervello emotivo” si occupa prevalentemente di rilevare i segnali provenienti dall’esterno e dall’interno dell’organismo e predisporre una risposta, delegando alla parte cognitiva del cervello, quella posta frontalmente, il controllo delle risposte comportamentali. Questa parte dell’encefalo, la corteccia prefrontale (PFC), evolutivamente più recente, è suddivisa in aree, tra le quali quella che più interessa la regolazione delle emozioni e dell’aggressività è la corteccia orbitofrontale (OFC).
Una delle cause dell’aggressività è la frustrazione, una condizione psicologica di sofferenza che nasce dalla impossibilità di soddisfare un bisogno o desiderio. L’esperimento di Berkowitz (L. Berkowitz & A. LePage, 1967) mette in evidenza, inoltre, come la causa dei comportamenti aggressivi, può dipendere anche dal modo in cui viene interpretata una situazione; se nell’ambiente sono presenti armi, ad esempio, o altri “stimoli aggressivi” si è portati a credere che la situazione sia pericolosa, il che porta a reagire in modo aggressivo. Secondo Berkowitz infatti la frustrazione non provoca immediatamente una risposta aggressiva, ma suscita nell’individuo uno stato di attivazione emotiva, la rabbia, che crea una condizione interna di preparazione al comportamento aggressivo.
Così, un gesto, una parola, un comportamento, ostile, provocatorio, “ingiusto”, può innescare il comportamento aggressivo. Per esempio: se qualcuno ci ha minacciato, ci ha insultato, inflitto del male fisico o morale, la nostra reazione servirà ad impedire che continui, a farlo smettere. Possiamo affermare che questo è un comportamento di aggressività fisiologica, cioè un comportamento che, evolutivamente parlando, si è sviluppato per difenderci.
Nell’aggressività patologica, invece, si mette in moto un tipo di comportamento difensivo, senza che vi sia stato alcun atteggiamento provocatorio o ostile da parte degli altri o un comportamento eccessivo e sproporzionato rispetto all’offesa o alla minaccia.
I malati affetti da demenza possono, in alcuni casi, reagire in modo eccessivo e, addirittura, diventare aggressivi in situazioni che non giustificherebbero tali reazioni. Possono, ad esempio, mettersi a strillare o lanciare accuse irragionevoli, oppure agitarsi senza motivo o rifiutare di muoversi. Questa tendenza a reagire in modo esagerato rispetto alla situazione è dovuta molto spesso alla al danno cerebrale causato dalla malattia. Bisogna sempre tenere a mente che questi comportamenti aggressivi del malato non sono diretti intenzionalmente verso chi lo assiste o gli sta vicino, ma è una conseguenza della malattia stessa.
Quando si assiste a una situazione come quella descritta, è probabile che la malattia abbia colpito le aree più frontali del cervello. Cioè quella parte normalmente deputata al controllo degli impulsi che ci permette di non dire la prima cosa che ci viene in mente, ad esempio, permettendo di monitorare il comportamento e adattarlo al contesto.
Quindi, quando queste funzioni sono deficitarie, a causa del danno provocato dalla malattia degenerativa, questo controllo viene a mancare. Così possono verificarsi alcuni comportamenti, diversi dal solito, spaventosi, apparentemente inspiegabili, aggressivi, pericolosi. In certi momenti di discontrollo, cercare di far ragionare queste persone può essere molto difficile se non impossibile.
Come comportarsi in questi casi?
In questi casi è importante cercare di rimanere calmi, soprattutto se il malato ci urla contro o si comporta in modo minaccioso. E’ possibile che la persona sia spaventata o arrabbiata e abbia bisogno di essere rassicurata. Alcune volte è possibile bloccare un comportamento aggressivo semplicemente distraendo la persona. Gli si può proporre, di andare da qualche parte, ad esempio, o fare qualcosa che a lui piace.
Bisogna però essere consapevoli che il malato può avere più forza di quanto ci si aspetti, quindi è necessario essere sicuri di avere a disposizione una via di fuga. Sarebbe opportuno trovare una persona competente che ci insegni come ci si può liberare da una eventuale presa stretta.
Se le rassicurazioni non dovessero funzionare, si può lasciare la stanza, dando al malato il tempo e lo spazio per calmarsi, anche perché cercare di far ragionare una persona in quello stato spesso è inutile e quando le emozioni emergono troppo forti e prendono il sopravvento è meglio lasciarle passare.
È molto importante parlare dell’accaduto con il medico anche se pensiamo di aver gestito bene la situazione, sicuramente potrà dare degli utili consigli e se è il caso necessario prescrivere dei farmaci.
Pierandrea Mirino, Carlo Fabrizio
Fonti consultate.
Baron, R. A. (1983). The control of human aggression: An optimistic perspective. Journal of Social and Clinical Psychology, 1(2), 97-119.
Berkowitz, L., & LePage, A. (1967). Weapons as aggression-eliciting stimuli. Journal of Personality and Social Psychology, 7(2p1), 202.
Giuliano, S. (2012). La violenza indicibile: l’aggressività femminile nelle relazioni interpersonali. A. Salerno (Ed.). Angeli.
LeDoux, J. E. (1986). Sensory systems and emotion: a model of affective processing. Integrative psychiatry.
Questo articolo nasce con intento divulgativo. Eventuali semplificazioni sono volute al fine di renderlo di più facile lettura e comprensione.